Giulietto Chiesa 2002 – Estratti significativi
(I titoli sono stati inseriti da me per rendere più facile la lettura)
CINA
«…La Cina è l’unico paese al mondo che può prendere decisioni senza chiedere il permesso a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti d’America. I dirigenti cinesi sono l’unico gruppo d’individui che non dipende dalle opinioni che si formano a Washington, non sono tenuti a rispettare i criteri, non devono rispondere delle proprie azioni e non sono ricattabili dall’esterno.»
MEDIA
«…A questo punto, voglio porre una premessa. Non sono antiamericano. Non lo sono mai stato. E’ un modo singolare di proseguire un ragionamento, me ne rendo conto, ma è utile a sgombrare il campo, per quanto è possibile dai fraintendimenti. E questo è sicuramente il più probabile di tutti, perché solo di questo praticamente si è parlato dopo l’11 settembre. Per la verità, è altrettanto singolare il fatto che ci sia sempre qualcuno pronto a lanciare quest’accusa (sì, perché per questi qualcuno l’aggettivo “antiamericano” equivale non solo a un’accusa, ma addirittura a una bestemmia) non appena ci si accinga a criticare l’amministrazione di turno degli Stati Uni ti d’America. Un vezzo che, se trasferito in Italia equivarrebbe ad accusare di antitalianismo chi all’estero, osasse criticare il presidente del Consiglio di turno.
In realtà, com’è evidente, questi difensori d’ufficio dell’America non possono accettare critiche di nessun genere all’indirizzo del potente, anzi del Potere. E infatti, sono gli stessi che ossequiano il Potere dovunque esso si trovi. Figuriamoci quando il Potere diventa Impero! Così, assai spesso, li si trova impegnati in quell’impresa senza gloria che consiste nel difendere proprio coloro che hanno già abbondanti mezzi di difesa, e anche di offesa. E sono tanti la maggioranza dei commentatori per esempio, che non sarebbero diventati quello che sono se non avessero dato prova ferrea della loro fedeltà assoluta alle esigenze di lealtà verso il Potere.
L’obiettivo dunque è di stroncare la discussione, chiudere la bocca agli avversari. Un obiettivo che è quanto di più ideologico si possa immaginare e spiega anche perfettamente perché, per esempio, il coro della stampa italiana (e non soltanto italiana) sa spesso così uniforme. Il fatto è che i detentori delle chiavi dei media, di regola, sono solo persone totalmente affidabili: non occorre dire loro cosa devono comunicare, lo sanno già a memoria. Hanno introiettato le regole del gioco. L’affidabilità è faccenda che richiede lungo allenamento, considerevole applicazione. A ogni scalino nella scala gerarchica dell’informazione si deve aver dato prova di un totale disprezzo per la verità, di completa disponibilità all’inganno, di cinismo a prova di bomba. Solo così, di regola, si passa al gradino superiore.»
SUPER SOCIETA’
«…Si tratta di un mix inedito, in cui confluiscono tutti i rappresentanti di quelli che vengono di solito definiti i “poteri forti” indipendentemente dal paese in cui occasionalmente risiedono per motivi fiscali. Ci sono tutte le componenti essenziali perché questo nuovo Potere si affermi e vinca definitivamente, come i suoi membri ardentemente sperano: ci sono vertici dei maggiori gruppi economici e finanziari, delle maggiori concentrazioni statuali, di alcune organizzazioni sovranazionali, del sistema mediatico, ci sono vertici militari, i vertici del servizi segreti. Variamente mescolati con presidente Ceo (Chief Executive Officer) delle megacorporation, banchieri centrali e periferici, insieme al corteo di collaboratori a redditi astronomici e medio-astronomici, direttori di grandi televisioni e media, sovrani e dittatori (quelli ragionevolmente stabili, quelli maggiormente presentabili) con le loro corti, dirigenti politici, in carica ed ex, assieme ai loro commessi. E via elencando. Insomma: veri potenti più coadiutori funzionali alla potenza, senza i quali essa non può essere esercitata.
Zinoviev ritiene, generosamente, che allo stato attuale questa super-socientà possa vantare una popolazione oscillante ottanta e cento milioni di persone, famiglie incluse. Ma il processo di formazione è tuttora in corso e noi siamo testimo soltanto della fase immediatamente successiva alla sua adolescenza. E’ presto, dunque, per chiudere la parabola, per considerare concluso il processo. Ma è già visibile la fisionomia del nuovo, inedito, organismo sociale che sta prendendo vita. E’ l’inizio di una nuova era che conclude quella degli stati nazionali. E si chiude anche la stagione delle democrazie occidentali, delle costruzioni dello stato di diritto liberale, della dialettica dei poteri all’interno dei singoli stati. Se ne vedono già perfettamente i segni nel declino della democrazia rappresentativa, negli attacchi sempre più potenti che vengono sferrati dalle nuove élite contro la divisione dei poteri tipica dello stato di diritto e delle sue istituzioni. Le sovranità nazionali sono sempre più spesso soverchiate da centri esterni, incomparabilmente più potenti. E questi centri non hanno bisogno di alcuna legittimazione democratica: non è prevista, è estranea al loro funzionamento, alla loro nascita, alla loro logica. Comincia la fine della democrazia liberale così come si è configurata in Occidente nel corso degli ultimi cinque secoli. Tutto ciò, a buon diritto, può essere definito come l’inizio della costruzione di una formazione sociale del tutto nuova.»
BANCHE
«…Tutti i paesi in via di sviluppo, quelli più promettenti, furono investiti da una pressione assolutamente irresistibile affinché aprissero le loro frontiere. affinché le banche centrali cedessero le loro leve alla gestione statunitense. Le ambasciate degli Stati Uniti diventarono veri e propri centri commerciali e di promozione della finanza statunitense. Le grandi banche d’investimento, a loro volta in fantastica espansione, dettarono le regole, impregnarono dei loro collaudati sistemi tutta la finanza mondiale. Le imprese di controllo finanziario e di audit, i loro sistemi di rating e di valutazione decisero chi avrebbero dovuto essere, senza possibilità di appello, i buoni e i cattivi. Sfortunatamente, il resto del mondo, soprattutto il resto debole del mondo, non poteva reggere a lungo una simile pressione. Meno di dieci anni dopo, era già evidente che le ambizioni e l’avidità di un’élite, che credeva di essere ormai divenuta onnipotente, avevano di gran lunga oltrepassato il senso di responsabilità. Ma, con l’avvicinarsi del disastro, ci si è accorti anche che non c’era nessuno capace di ridimensionare quelle ambizioni e di imporre un sistema di regole.»
ESCURSIONE FINANZIARIA
«…Nel nuovo contesto, immense risorse finanziarie si muovono verso i paesi in via di sviluppo, aprendo nuove, colossali possibilità d’investimento in quelle economie emergenti e fantastici profitti ai prestatori. Ma nei fatti si verifica che quei capitali, così come velocemente arrivano, altrettanto velocemente possono andarsene utilizzando la stessa, bidirezionale assenza di regole. Le cifre vanno però dispiegate per essere lette e interpretate. Dieci anni prima gli investimenti esteri nei paesi in via di sviluppo sono stati di circa 34 miliardi di dollari. Nel 1997 sono balzati a 256 miliardi di dollari. Ma è bastato un momento di crisi per produrre una fuga generalizzata. Le cinque economie più duramente colpite dalla crisi asiatica del 1997 (Corea del Sud. Indonesia, Thailandia, Malaysia, Filippine) avevano appena ricevuto, nel 1996, tutte insieme, 93 miliardi di dollari di capitali dall’estero. Nel 1997 quell’input totale si è trasformato in output netto di 12 miliardi di dollari. In sostanza, in meno di un anno i cinque paesi hanno dovuto sopportare una “escursione finanziaria” di 105 miliardi di dollari, pari all 11% dei loro prodotti interni lordi combinati. Nemmeno paesi solidi come la maggior parte degli stati europei avrebbe potuto reggere a contraccolpi di questa portata.
Qui è evidente anche un altro dato: non possono essere l’inefficienza delle economie locali o la corruzione delle classi politiche le cause principali del disastro. Sono senz’altro componenti importanti del problema, ma secondarie rispetto alla responsabilità della finanza internazionale, delle grandi banche d’investimenti che hanno giocato le proprie partite senza tenere minimamente in conto le reali condizioni di quei paesi, preoccupate soltanto di estrarre profitti e tagliare la corda non appena si fosse delineato qualche pericolo.»
PROFITTO CORPORATE
«…La lunga serie dei segnali premonitori, davvero molto simile ad avvertimenti mandati dal cielo, dice soltanto che l’Occidente ha raggiunto una condizione collettiva assai prossima alla demenza. Ogni evidenza è demolita da euforie insensate; ogni richiamo alla ragione è stroncato o irriso, sebbene il suo contrario non possa reggere alla minima prova dei fatti. Il pensiero unico da “fine della storia” e “fine delle contraddizioni” giunge al parossismo con Michel Camdessus – colui che aveva firmato la demolizione della Russia dal suo posto di gestore del “consenso di Washington” nel decennio precedente – che strilla il suo slogan da perfetto sepolcro imbiancato: “diventare più ricchi per aiutare i poveri”.
Il mondo è ora nelle mani di gente portata al comando dalle involuzioni del caso, posta alla guida di meccanismi complessi e inediti senza avere la competenza necessaria, senza alcuna legittimazione popolare, nominata da poteri altrettanto ciechi e incomparabilmente avidi. Nessuno ha un minimo di responsabilità morale. L’unico criterio di valutazione, con il necessario accompagnamento di un solido cinismo, resta quello del profitto corporate.»
VILLAGGIO GLOBALE
«…Abbiamo sentito magnificare, per vent’anni consecutivi, la fulminea rapidità con cui, nel villaggio globale, tutti sanno tutto di tutti, in tempo reale; rapidità di comunicazioni, di messaggi, di consultazioni, di trasferimenti di denaro da un capo all’altro del pianeta. Ed ecco che scopriamo che sono pochi – e chi siano esattamente non sappiamo – coloro che sanno non tutto ma l’essenziale di tutti, mentre i “tutti”, cioè noi, possono non sapere niente di ciò che è essenziale per la loro vita.»
PIL DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
«… I ricchi si distanziavano dai poveri ad alta velocità, ma il divario tra primi e secondi cresceva molto di più nei paesi in via di sviluppo o emergenti, oltre che nell’Europa centrale e orientale. E in questa semplice constatazione si nascondeva uno dei trucchi più indecorosi, consistente nel fare finta di non sapere che il Pil dei paesi in via di sviluppo, e di quelli poveri e poverissimi – a volte in crescita – non si distribuisce affatto tra le popolazioni. Per cui anche dove c’è crescita, non è detto affatto che essa significhi diminuzione del la povertà. Anzi, molto spesso le cifre dicono a chi voglia guardare – che anche la ricchezza dei paesi poveri significa soltanto ricchezza per le esigue minoranze che li dominano. E che sono, quasi sempre, molto amiche delle élite occidentali con cui fanno affari e nelle cui banche depositano i miliardi di dollari rubati ai propri sudditi.»
STATI UNITI
«…Quel 10 settembre [2001] ci dice che i nostri ricchi sono diventati non solo più ricchi, ma anche più disumani, più avari, più prepotenti. Potevano pensare di essere amati, oltre che invidiati, ammirati? “Questa nazione – diceva Al Gore nella sua infelice e inutile campagna elettorale – è ora guardata dai popoli di ogni altro continente e di ogni altra parte della Terra come una specie di modello per ciò che dovrà essere il futuro.” C’era del vero anche in quell’orgogliosa notazione. C’era una società molto particolare, miracolosamente anomala, capace di assorbire tutto, di metabolizzare le contraddizioni, di moltiplicare le proprie energie attraverso una congiuntura secolare che l’ha resa serbatoio delle forze più dinamiche dell’intero pianeta. Ma Al Gore era incapace di capire che non tutto ciò che gli americani pensano vada bene per se stessi possa andare bene anche per gli altri. Proprio perché gli altri, tutti gli altri, non hanno avuto in sorte – perché la loro storia concreta non lo ha permesso – di trovarsi al centro della corrente. Ma non per questo si considerano inferiori, o accettano che si impongano leggi e criteri ai quali non sono predisposti e che non gradiscono. Né vedeva, Al Gore, che l’ammirazione non coincide con l’amore. Né coglieva che dominare da soli tutto il mondo significa inesorabilmente farsi dei nemici. E gli sfuggiva che un simile ruolo e una simile responsabilità – sicuramente desiderati e voluti dalla maggior parte delle élite americane – avrebbero dovuto indurre gli Stati Uniti ad assumere la guida della lotta globale contro la povertà, la diseguaglianza e l’ingiustizia. Invece, Al Gore (come Clinton), Bush (come Al Gore) non erano riusciti nemmeno a individuare il problema, immenso come il debito dell’America nei confronti del resto del mondo. Avrebbero dovuto considerare se non fossero stati accecati dall’ideologia (intesa in senso marxiano, come falsa coscienza) – che la meravigliosa performance degli Stati Uniti nell’ultimo ventennio era stata realizzata non solo grazie alle proprie qualità e alle favorevoli circostanze, ma a spese del resto del mondo che l’aveva pagata quasi interamente.»
TERRORISMO
«…Purtroppo, che cosa sia il terrorismo nessuno è in grado di dirlo con esattezza. E chi ci prova finisce per cadere in contraddizioni insanabili e molto pericolose, in un mondo come questo, dove gli stati – e gli Stati Uniti in prima linea – sono stati essi stessi organizzatori di svariate forme di terrorismo. Noam Chomsky è andato a scovare una definizione di terrorismo in un manuale militare americano. E ha trovato: “Terrore è l’uso calcolato della violenza, o della minaccia della violenza, per ottenere scopi politici o religioso- ideologici attraverso l’intimidazione, la coercizione o instillando paura”. Discreta definizione, può andare bene in prima approssimazione. È, del resto, simile a quelle adottate in alcune risoluzioni delle Nazioni unite. Allora seguiamo Chomsky nella sua ricostruzione delle vicende che accompagnarono e seguirono la guerra scatenata da Reagan contro il Nicaragua. “Il Nicaragua non rispose. Essi non risposero mettendo bombe a Washington. Essi risposero chiamando Washington a difendere il proprio operato davanti al Tribunale internazionale […]. Non ebbero difficoltà a trovare le prove. Il Tribunale le accettò, deliberò in loro favore, […] condannò ciò che essi avevano denunciato come ‘uso illegale della forza’, che è un altro modo per definire il terrorismo internazionale, […] intimò agli Stati Uniti di porre fine al crimine e di pagare massicci indennizzi. Gli Stati Uniti, ovviamente, respinsero con sdegno la sentenza della Suprema corte e annunciarono che da quel momento non ne avrebbero più riconosciuto la giurisdizione. Allora il Nicaragua si rivolse al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Che emise una risoluzione invitante tutti gli stati a osservare le leggi internazionali. Nessuno fu nominato, ma tutti compresero. Gli Stati Uniti misero il veto alla risoluzione. Ed essi sono oggi l’unico stato che ha dovuto subire una condanna del Tribunale internazionale e che, al tempo stesso, ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza che esortava gli stati a osservare le leggi internazionali. Allora il Nicaragua andò oltre e si rivolse all’Assemblea Generale dell’Onu, dove non esiste tecnicamente un meccanismo di veto, ma dove un voto degli Stati Uniti equivale ad un veto. E l’Assemblea approvò una risoluzione analoga [a quella del Consiglio di sicurezza] con il voto contrario soltanto degli Stati Uniti, di Israele e del Salvador. L’anno successivo di nuovo [si votò in Assemblea], e questa volta gli Stati Uniti raccolsero soltanto il voto di Israele […]. A quel punto il Nicaragua non poteva fare nient’altro di legale. Aveva tentato tutte le strade. Ma esse non funzionano in un mondo governato dalla forza.»
GUERRA ASIMMETRICA
«…La guerra asimmetrica dell’imperatore contro il terrorismo internazionale procede con questa caratteristica: dopo ogni “vittoria”, restano le basi militari americane e si stabilisce una dipendenza politica diretta da Washington. Così è stato in Kosovo; così succede nello Yemen, dove arrivano i consiglieri americani; così nelle Filippine, dove l’esercito statunitense è già in azione; così più discretamente in Sudan, dove la leadership locale, per non contrariare Washington, si prepara a fare quanto le sarà dettato. Adesso tocca alla Georgia, che non ha scelta.»
GUERRE VIGLIACCHE
«…L’epoca dell’Impero è l’era delle guerre vigliacche, in cui si può solo vincere.»
TWIN TOWERS
«…Come effetto, tre anni dopo, ci fu l’attentato alle Twin Towers. Questo singolare percorso o modello operativo va tenuto presente nel seguito di quest’esposizione. Riassumendo: un noto estremista islamico viene introdotto dalla Cia negli Stati Uniti sapendo che organizzerà una rete estremista. Ma poi la Cia si distrae a tal punto da non accorgersi che il soggetto organizza un grande attentato nel cuore di Manhattan.»
STATI UNITI
«…Perché qui si vede una vittima, gli Stati Uniti d’America, che appare di volta in volta come incapace di capire ciò che sta accadendo, di prevederne gli sviluppi, a volte perfino complice (attraverso propri uomini: finanzieri, affaristi o legati ai servizi segreti) degli attentatori, comunque colpevole di gravi omissioni, di collusioni, di comportamenti masochistici. Una vittima cieca e prepotente, occhiuta ma indifesa.»
ARABIA SAUDITA E RAPPORTO CON GLI STATI UNITI
«…Il primo posto da cui partire è dunque questo: i semplici cittadini sauditi non hanno ricavato nulla da quelle ricchezze, dilapidate per sempre e non rinnovabili. La famiglia reale saudita conta più di 7000 membri: qualcosa di simile a una piccola cittadina di miliardari, sovrani medievali assoluti che, certo, hanno goduto di condizioni di vita sfarzose, spendendo e spandendo oltre ogni decente misura, nei casino di tutto il mondo, nei night-club di tutto il Medio Oriente, consumando beni di lusso, solo loro, in misura tale da tenere in piedi l’economia di più paesi esportatori. Una specie di casta arrogante e ottusa legata da vincoli familiari, corrotta e litigiosa al suo interno ma compatta all’esterno, ansiosa di vivere nei lussi e nelle libertà dell’Occidente e, al tempo stesso, gelosa delle proprie prerogative orientali. Moderna a Londra e a New York, incluse le Borse, oscurantista a Riyadh. Una sorta di casta compradora assolutamente incapace di comprendere e accettare la democrazia e le libertà civili, i diritti umani e tutto ciò che i suoi commensali occidentali, negli hotel di lusso delle capitali del potere mondiale, hanno sempre vantato di possedere ma non hanno mai cercato di esigere nei suoi confronti. Si spiega così, fra le altre cose, il fatto che in Arabia Saudita la condizione delle donne sia sempre stata non lontana da quella, barbara, imposta alle donne afghane dai taleban, e che tanto indignò le anime belle degli editorialisti occidentali non appena cominciarono ad arrivare i segnali di guerra. Tutti silenziosi, naturalmente, nei lunghi anni in cui era più conveniente tacere sugli sgradevoli dettagli della vita interna di questo o quel paese.
Miliardari, dunque, quei signori della famiglia reale saudita, ma sotto stretto controllo e nei limiti definiti da cogenti rapporti di forza. Infatti, la corrente principale dei flussi di denaro non si è mossa dai consumatori di energia verso i produttori-esportatori, ma in direzione diametralmente opposta. Cioè non dall’Occidente a Riyadh, ma quasi viceversa. Nel senso che Riyadh sborsava, a vantaggio degli Stati Uniti, gran parte degli introiti che riceveva dal consumo petrolifero di tutto l’Occidente. Perché? Essenzialmente per continuare a esistere nella forma statuale che conosciamo, cioè in cambio di protezione. Ma in che forma? Nemmeno questo è un mistero. In primo luogo si può tranquillamente affermare che i bilanci del Pentagono sono stati per decenni pagati in larga misura dalle finanze dell’Arabia Saudita: con acquisti spropositati di armamenti di ogni tipo, spesso addirittura superiori alle possibilità di fruirne. In seconda istanza, la monarchia saudita ha conferito ingenti commesse alle imprese petrolifere statunitensi. Per vie dirette, per sistemi di corruttela variegati, enormi somme di denaro sono state letteralmente regalata a imprese americane come la “Halliburton” (si ricordi solo questo esempio, in onore del vicepresidente statunitense, Dick Cheney, che ne fu a lungo, praticamente fino al momento di diventare il numero due dell’amministrazione di Washington, presidente e amministratore delegato). Infine, terza e ultima e possente idrovora che ha continuato a pompare denaro direttamente dai pozzi sauditi alle casse del Tesoro americano: il finanziamento del debito pubblico statunitense attraverso l’acquisto (palesemente forzoso sebbene tecnicamente ineccepibile) da parte saudita di buoni del tesoro degli Stati Uniti d’America. Secondo i dati ufficiali, il 38% del debito pubblico statunitense è in mano a creditori esteri. Il 22% di questo ammontare è nelle mani della famiglia saudita. Qualcosa che all’incirca assomma a non meno di 200 miliardi di dollari. E questo discorso è applicabile agli Emirati Arabi Uniti e al Kuwait che, difatti, insieme sono creditori di gran parte del resto.
Poveri miliardari arabi, taglieggiati dai loro protettori. In questo modo gli Stati Uniti si sono sostanzialmente appropriati di larghissime quote dell’intera spesa petrolifera mondiale. E questo spiega anche perché essi, contrariamente a ciò che si sarebbe potuto pensare in quanto maggiori consumatori di petrolio (quindi interessati a un basso prezzo del barile), hanno aiutato l’Opec a tenere alto il costo del greggio. Le perdite sono state sempre molto inferiori ai ricavi. Naturalmente, come chiunque può capire, un tale meccanismo, per poter esistere e protrarsi nel tempo, implica che le classi dominanti di un determinato paese siano d’accordo che il proprio paese sia spogliato sistematicamente da un predatore esterno. Un predatore che assicura loro il potere: questo è il “do ut des”. Chi paga sono le popolazioni, cui viene impedito ogni sviluppo, ogni benessere, ogni diritto.»
COME SI COMBATTE IL TERRORISMO
«…Perché la prima, la più urgente questione a me pare non tanto e non soltanto quella della democratizzazione di quei regimi (che richiederebbe comunque tempo), quanto una drastica redistribuzione della ricchezza. Questa è la vera strada, la strada sicura, l’unica strada per combattere il terrorismo. Purtroppo, non vi sono segni che ci sia qualcuno intenzionato a percorrere questa strada. Invece si e bombardato l’Afghanistan, ultima miserabile conseguenza, ultimo sintomo di una malattia le cui origini, come abbiamo visto, stanno altrove, in altre capitali, in altre latitudini.»
LO SCOPO DEL TERRORISMO
«…È stato detto, giustamente, che la verità, se mai verrà, non la si troverà prima dei prossimi cento anni. E caratteristica tipica del terrorismo in grande stile, del terrorismo dei servizi segreti, del terrorismo dei potenti, quella di non lasciare tracce, di non produrre rivendicazioni, di indicare false piste. E ogni cosa lascia intravedere che si tratta proprio di questo tipo di terrorismo, che procede per calcoli freddi, per grandi e impenetrabili progetti. Lo scopo non è ottenere questo o quel risultato immediato, ma terrorizzare popoli interi e nazioni, gettarli nel panico, far perdere la bussola, indurre i loro dirigenti ad atti inconsulti sotto la pressione di sentimenti e reazioni collettive, irriflesse, spasmodiche, irrazionali. In questo tipo di terrorismo – che è giusto definire “di stato” perché i suoi obiettivi sono “statuali” – la vendetta non è l’ingrediente principale. Semmai, la vendetta è di breve momento, tattica, perfino pericolosa perché permette a chi indaga di scoprire da dove viene, di individuare il movente. La vendetta può essere, al massimo, l’ingrediente necessario per mettere in moto esecutori più o meno consapevoli di ciò che stanno facendo.»
STRAGI DI STATO
«…Conclusione, questa, che non dovrebbe stupire troppo un lettore italiano, cittadino di un paese che negli ultimi quarant’anni ha toccato con mano situazioni in cui servizi deviati hanno cooperato alla realizzazione di gravissimi attentati terroristici. La strage della Banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969, quella di piazza della Loggia a Brescia, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, l’Italicus, la bomba alla stazione di Bologna. Decine di morti, centinaia di feriti possono sembrare poca cosa rispetto all’evento dell’11 settembre, dove i morti si misurano a migliaia. Ma è solo questione di grandezza della posta in gioco. Nel caso dell’Italia, la posta era la necessità di fermare a tutti i costi l’arrivo dei comunisti al potere in Italia. Nel caso dell’11 settembre la posta in gioco è il dominio del mondo. E, per tali obiettivi, è il terrorismo di stato che entra in azione. E ciò significa, di solito, che si muovono segretamente pezzi di servizi segreti, che in Italia siamo abituati a chiamare “deviati”. Spezzoni che agiscono due volte nell’ombra perché sono segreti anche ai capi ufficiali dei servizi segreti, che sfuggono ai controlli delle direzioni politiche dei singoli paesi, ma che agi- scono sempre in base a piani, progetti che nascono all’interno delle classi dirigenti e che vengono lasciati procedere, oppure vengono fermati, accelerati, rallentati a seconda dell’evoluzione delle situazioni politiche. In ogni caso, si tratta di stragi, cioè assassinii di massa di civili innocenti, ideati per produrre risultati politici. Sempre, in operazioni di questo genere, organizzazioni criminali di vario livello svolgono funzioni ausiliarie individuali, mentre alti funzionari dello stato, collocati nei gangli vitali della polizia, dell’esercito, della magistratura, svolgono funzioni di copertura, cioè intervengono discretamente per depistare, cancellare le tracce, prosciogliere indiziati, impedire che le indagini procedano e così via. Molto spesso, come anche l’esperienza italiana ha ripetutamente dimostrato, perfino gli esecutori materiali sono spesso all’oscuro del disegno per il quale lavorano. Anzi, hanno la convinzione di agire in nome dei propri ideali, buoni o cattivi che siano. E di agire in piena autonomia.»
AIUTI AL TERZO MONDO
«…James Wolfensohn, aprendo il World Economic Forum a New York, ha trovato il coraggio di dire al governo degli Stati Uniti che l’unica buona polizza di assicurazione contro il terrorismo sarebbe il raddoppio degli aiuti al Terzo mondo, passando dalla cifra “irrisoria” di 50 miliardi di dollari a 100 miliardi. Lo ha fatto ricordando che Europa e Stati Uniti spendono ogni anno cifre sei-sette volte superiori per sovvenzionare con interventi statali le rispettive agricolture, in barba a ogni regola di libera concorrenza delle merci sul mercato mondiale. Anche Wolfensohn ha dovuto spiegare al suo uditorio di miliardari, tutti sicuri esponenti della nuova super-società globale, che non occorre essere idealisti per capire questo. “Non sono un sognatore – ha ricordato sono stato per trent’anni nel mondo della finanza. Lo dico come un realista che ha visitato 114 paesi.” Ha capito di essere seduto su una polveriera, e ha messo in guardia. L’uditorio all’Hotel Waldorf Astoria non ha prestato molta attenzione. Si spera, invece, in una rapida ripresa che consentirà di dimenticare tutti i brutti incubi degli ultimi tempi.
Si prevede dunque – lassù, su quel ponte di comando da cui si vede il miglior panorama e anche una parte del futuro – che gli altri non debbano consumare altrettanti beni e risorse. E ci si appresta a impedirglielo, con ogni mezzo. Gran parte degli esclusi non potrà difendersi e sarà assoggettata o schiacciata. I problemi derivano da chi, per ora, non si può addomesticare o dirigere. La Cina è sicuramente il problema più importante. Ed è a essa che si pensa sul ponte di comando, mentre ci si prepara alla guerra del futuro.
La Cina hanno già calcolato – diventerà temibile, per i quattro parametri essenziali (demografico, economico, tecnologico e militare), da qui al 2017. Così, perlomeno, si afferma in un documento del Pentagono che, non casualmente, porta la firma di Rumsfeld.»
LA RUSSIA
«…Occorre tuttavia dare un’occhiata al rovescio della medaglia del “good job” da cui siamo partiti. La Grande Yalta asiatica implica l’esistenza di un partner-avversario cui concedere una parte, seppure piccola, del bottino. Questo partner-avversario è la Russia. Essa, improvvisamente, è rientrata in gioco dopo il lungo limbo decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l’assoluta subalternità di Boris Eltsin agli interessi americani) l’avevano relegata. Paradossalmente, è stato proprio l’imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità, costretto a pagare un prezzo che, alla lunga, potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto appaia oggi. Occorre infatti la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la Grande alleanza contro il terrorismo internazionale. L’esistenza stessa di una Grande alleanza fornisce la prova apparentemente inconfutabile della legittimità morale della guerra afghana. Per ottenere l’appoggio di Mosca l’amministrazione non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, dei viaggi in Russia, delle missioni diplomatiche, delle concessioni di vario genere dispiegate dal pocker d’assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell. Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo di Washington. Lo ha addirittura anticipato offrendo, per primo – più tempestivamente rispetto ad altri alleati occidentali – condoglianze e solidarietà dopo la tragedia dell’11 settembre. Da quel momento si è avuta l’impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington, avvalorata da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l’informazione occidentale.
In realtà, abbiamo assistito all’inizio di una serrata (a tratti molto rude) trattativa tra Stati Uniti e Russia per ridefini i reciproci rapporti e per ridisegnare la carta asiatica alla luce cruda dell’11 settembre.»
OLEODOTTI E GASDOTTI
«…Di conseguenza, la posizione di Putin è stata ferma riguardo al regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione del regime dei taleban. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione congiunta pakistano-saudita-statunitense, nel quinquennio precedente, per creare una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso l’Afghanistan.»
OPERAZIONE TALEBAN
«…Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da un lato, infatti, essa avrebbe consentito una soluzione molto conveniente per il movimento di ingenti quantità di energia verso le grandi economie occidentali; dall’altro lato, avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso principesche royalty e l’influenza sull’intera area centroasiatica. Quest’ultimo aspetto è in stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo collasso, alla sua trasformazione in “confederazione debole” (loose confederation) e, infine, a una sua suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia occidentale ed Estremo Oriente).
Fallito il progetto (per l’impossibilità di mettere d’accordo le fazioni afghane) si decise di pacificare l’Afghanistan con un regime nuovo di zecca, costruito artificialmente dall’esterno, a partire dal territorio pakistano, utilizzando l’immenso potenziale di reclutamento rappresentato dai milioni di profughi afghani nella Nwfp [North-West Frontier Province]. Il movimento dei taleban è nato così, tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrase (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani che hanno fornito istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici sono stati formati a una nuova jihad, addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi del Pashtunistan.
In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i taleban del mullah Omar conquistano o comprano quasi tutti i comandanti militari ex mujaheddin, costringono gli altri alla fuga e s’impadroniscono del 90% del territorio del paese. Nel 1996 arrivano a Kabul. Ma la Russia non resta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito per conto proprio il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l’operazione taleban era diretta a colpire a fondo gli interessi russi, avevano cominciato a sostenere e armare l’unico antagonista afghano rimasto a contrastare sul terreno la travolgente avanzata dei taleban: il tagiko Ahmad Shah Masood, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.»
ACCORDI PUTIN BUSH
«…Ma ora Vladimir Putin ha le sue rimostranze da fare a George W. Bush. E una proposta secca ed efficace: vi diamo l’appoggio politico necessario per liquidare i taleban che nel frattempo sono diventati pericolosi anche per voi, come lo erano per noi quando lavoravano per voi. Ma a condizione che il futuro governo dell’Afghanistan sia concordato. C’è un’altra condizione: il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sarà gestito assieme alla Russia e non contro la Russia. Putin concede perfino qualcosa di più: volete qualche base in Asia centrale? Prendetevela. Ma solo finché sarà funzionale a liquidare il regime dei taleban. Poi vi ritirerete. Bush è un uomo d’affari e, come ogni uomo d’affari che si rispetti, può fare promesse che poi non manterrà.»
LA NATO
«…Del resto Putin è perfettamente cosciente che l’allargamento verso Est dei confini della Nato sarà deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio spazio di manovra è segnato anche su questo fronte dai rapporti di forza concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non dà in escandescenze (come amava fare Eltsin) se lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potrà far valere – se ne avrà – la sua forza. D’altro canto, la vicenda afghana, cioè l’inizio della guerra infinita, lascia trasparire che Washington non ha più molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al più con l’aiuto dell’Inghilterra. Pensa di poter e dover farcela da sola, senza impacci, senza remore. Per la Washington di Bush e Rumsfeld la Nato avrà dunque, sempre di più, un valore politico e diplomatico, quello militare è ormai prerogativa esclusiva dell’Impero. In questo tipo di Nato – ormai trasformata in strumento politico, destinata a sostituire, con l’andare del tempo, le ultime vestigia della cooperazione paritaria, rappresentate malinconicamente dall’Osce [Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea] – la Russia potrebbe anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a poco più che a una soddisfazione simbolica. Putin ha capito anche questo. Ma la Russia potrebbe vantare comunque un enorme successo di facciata: quello di avere disinnescato l’alleanza dell’Occidente e di avere pareggiato il conto con la fine del Patto di Varsavia.»
MISTERO DELLA BENZINA MENO CARA DOPO l’11 SETTEMBRE
«…Una di queste partite, piuttosto strana e di difficile lettura, deriva dalla sorprendente constatazione che, dopo l’11 settembre, la benzina è meno cara di prima. Rispetto all’anno precedente, il costo è sceso di oltre la metà. Si tratta di un eccesso di offerta in un’economia mondiale in recessione che consuma meno energia? Può essere. E in questa logica i paesi dell’Opec, che controllano il 60% delle esportazioni mondiali, hanno deciso tagli di produzione per tre volte di seguito. Ma senza successo. Eppure in altre occasioni aveva funzionato. Eppure una crisi politica delle dimensioni dell’11 settembre aveva provocato panico petrolifero e una spinta verso l’accaparramento energetico che dovrebbe produrre aumenti di prezzo. Invece, l’effetto è stato esattamente l’opposto. Il barile di petrolio è diventato più economico. Perché? La risposta sta a Mosca, Putin (il più importante esportatore dopo l’Arabia Saudita) ha continuato ad aumentare l’esportazione anche a prezzi calanti, riducendo i ricavi per barile. Ha rotto il fronte, insieme ad altri paesi non Opec. Perché l’ha fatto non è del tutto sicuro. Forse per immediate esigenze di cassa. E un’ipotesi da non escludere. Ma potrebbe averlo fatto su richiesta dell’amministrazione americana. In cambio di qualcosa, certo, ma facendo a Bush un regalo molto più importante di un corridoio aereo per bombardare i taleban. Fatti i conti, l’operazione petrolio di Putin ha avuto un effetto nettamente superiore a tutti gli sgravi fiscali promessi e realizzati da Bush. Ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Wall Street che a novembre, all’improvviso, contro tutte le previsioni, risaliva la china. Ogni famiglia americana ha risparmiato 172 dollari per riscaldarsi. Nella discesa del petrolio da 30 dollari al barile ai 16,70 dollari della metà di novembre, il reddito degli americani è cresciuto di 50 miliardi di dollari, perché ogni dollaro in meno al barile equivale, per gli Stati Uniti, a un risparmio di 5 miliardi di dollari. Operazione a doppio taglio, comunque, alla quale Washington ha poi posto un repentino freno. L’economia americana ha ricavato un vantaggio immediato, ma a rischio di mettere in ginocchio i regimi dei paesi islamici amici del Medio Oriente, Arabia Saudita in primo luogo. Perché una riduzione drastica delle loro entrate potrebbe renderli estremamente vulnerabili alle tensioni sociali interne. Infine, per via di questi meccanismi, a una riduzione delle entrate petrolifere dei paesi arabi corrisponde una riduzione dei profitti statunitensi, parallela alla riduzione delle entrate petrolifere. Questo spiega perché Bush ha fermato Putin. O, forse, spiega perché Putin si è fermato da solo quando si è reso conto che il favore a Bush gli era già costato una riduzione delle entrate statali di ben 12 miliardi di dollari. Nel contempo, l’esperimento è denso di possibilità. Una delle quali potrebbe essere, per Washington, quella di rendersi meno dipendente dal petrolio del Medio Oriente e di aprire una via strategica stabile per approvvigionamenti di petrolio nell’Asia centrale, meno turbolenti, più sicuri, più controllabili. Se, per esempio, nei calcoli di Washington vi fosse – come pare – la soluzione del problema palestinese semplicemente con la liquidazione dell’Autorità palestinese e se, simultaneamente, l’America decidesse di chiudere i conti con Saddam Hussein, bombardando l’Irak…»
NEMICI POSSIBILI (PREVISIONI 2002)
«…In questo caso, la Russia diventerebbe, insieme a tutti gli altri paesi del Caspio, salvo l’Iran – altro nemico da sgominare – il più prezioso alleato nella complessa riorganizzazione dei mercati petroliferi mondiali. Un alleato cui si possono concedere favori speciali. Resta da vedere che cosa può ottenere Putin da questa partita. E’ una partita che ci si appresta a giocare con un occhio puntato su Pechino. Perché è del tutto evidente che la Cina sa di essere stata già eletta a nemico principale nel futuro appena più lontano, quando l’attuale clash of civilizations contro il mondo islamico sarà terminato. Questo, perlomeno, è il recondito pensiero della squadra di George W. Bush che, non a caso, ha già mutato la definizione della Cina formulata da Clinton (partner strategico degli Stati Uniti) con l’espressione “competitore strategico”. Quando scatterà la data del 2017- fissata dai computer dei futurologi del Pentagono – la Cina sarà l’unica potenza di livello mondiale in grado di fronteggiare l’attuale potenza statunitense.»
EUROPA
«… L’Europa nel suo insieme non ha fatto meglio. Probabilmente perché sono stati in pochi a capire che l’Impero è una cosa seria. O, se l’hanno capito, hanno fatto finta di niente. L’Europa mostra di non afferrare il nocciolo del problema che potrebbe spiegarle molte cose. E cioè che essa oggi è l’unico rivale potenziale che possa minacciare gli Stati Uniti. Non militarmente, certo, ma con la sua moneta, con la sua forza economica, con la sua tecnologia, con la sua struttura sociale, con la sua cultura. È proprio per questo che i tanti cavalli di Troia che si sono già installati al suo interno non le lasciano costruire le basi perché diventi una potenza politica e militare. Anche la guerra afghana, come quella del Kosovo, è servita a ridurla in soggezione. Una parte cospicua dei leader europei si comporta come se avesse accettato l’idea che l’importanza di un paese sia definita dal suo grado di soggezione o di vassallaggio rispetto agli Stati Uniti. L’Impero, dal canto suo, non lascia dubbi sulle proprie intenzioni: dominare il mercato finanziario mondiale, esercitare una leadership politica totale, realizzare l’una e l’altra cosa attraverso un possente apparato militare. Dov’è dunque la Grande alleanza contro il terrorismo internazionale sbandierata all’inizio della guerra per giustificare la sua “inevitabilità” e la sua “legittimità”? Semplicemente non c’è mai stata. Propagandarla è servito a far credere a decine di milioni di persone che “questa è una guerra per la civiltà contro la barbarie”. Abbiamo assistito invece all’uso dei barbari e della barbarie per vincerla. Possiamo solo concludere, com’è già evidente, che non era una guerra di civiltà.»
SENZA STORIA
«… In queste pagine ho già messo in luce che alcune di queste conclusioni verosimili sono probabilmente false; che altre sono parzialmente false e, infine, che qualcuna ha un alto grado di probabilità di essere mescolata al falso. Ma soprattutto queste versioni hanno tutte un unico difetto: sono senza storia, non spiegano perché le cose sono accadute.»
MASS MEDIA
«… Viene in mente ciò che Karl Kraus raccontava a proposito della Prima guerra mondiale, descrivendo “un appiattimento, un incialtronimento, una corruzione di tutti i valori più nobili di una stirpe, che non hanno precedenti nella storia del mondo, soprattutto per la mendacità con la quale, in virtù dell’unico progresso di quest’epoca, ossia l’evoluzione della tecnica giornalistica, un’apparenza ha potuto essere piazzata davanti a una mostruosità“. Certo è che, negli ultimi tempi, molte cose sono accadute nel mondo dei media, cambiando numerose categorie di riferimento.»
«… Che altro aggiungere? Che questa è la via verso la fine dell’informazione pulita, la prova provata che i media, reggendo bordone alle scelte della politica, non hanno fatto il proprio dovere di esercitare una funzione critica. E anche qui c’è di peggio. Perché quel messaggio contiene pillole velenose di violenza, di subcultura prevaricatrice. Dice che gli afghani possono essere liberi solo se si comportano come noi, che le nostre regole devono valere anche per loro, che noi andiamo in casa loro da conquistatori, da dominatori, non da liberatori.»
«… Non abbiamo ancora capito che “il presente, quando sia stato violentemente scisso dal passato, promette disgrazie“?»
«… Le bugie si sovrappongono alle bugie, in un intrico senza fine e senza pudore.»
«… Dall’altra parte della linea del fronte, non un movimento, non un colpo. I taleban se ne stavano acquattati come selvaggi nascosti in una foresta di pietra, in attesa della bufera di fuoco tecnologico che li avrebbe seppelliti. I mujaheddin sparavano, divertiti, zelanti. E i giornalisti occidentali giravano, fotografavano, contenti di poter mandare qualche immagine di guerra alle rispettive redazioni, assetate di polvere da sparo. Fotografie “spontanee” in cui veniva detto ai soggetti di mettersi in posa, di alzare il pugno, di fare la faccia truce.
Si può toccare con mano, di nuovo, che la faccenda non è il “fateci vedere da vicino la guerra”, ma il “lasciateci fare i nostro mestiere”: riprendere e documentare ciò che c’è e non ciò che pretendono i nostri gusti o i desideri dei capiredattori a New York o a Roma. In realtà, non importa a nessuno che le immagini siano false. Del resto, se non ci fossero quelle immagini, le voci dei commentatori (lo si fa, comunque ogni sera, a spese del pubblico ignaro) sarebbero appiccicate sui filmati di altre guerre, in altri momenti, in altri posti. E quante volte sono apparse, corredate di commenti guerrieri, immagini di repertorio di esercitazioni notturne o diurne così intriganti da sembrare scene di guerra vera? Ciascuno preoccupato di confezionare esattamente ciò che vuole la casa madre, a prescindere dai fatti. Anche perché se i fatti non si inventano sul posto, la casa madre, per non sfigurare con la concorrenza, li inventerebbe da sé. A chi scrive si chiede più “colore”, per “tenere su” la guerra perché, altrimenti, il pubblico si annoia.
C’erano giornalisti che inventavano avanzate inesistenti, conquistando la prima pagina, almeno per un giorno, certi che il giorno dopo, anche se la notizia fosse stata smentita, non avrebbero ricevuto nessuna lavata di capo dal loro direttore. Interessa un bel titolo di prima, non la verità o la correttezza dell’informazione o, peggio ancora, qualche noioso approfondimento.
Così si forma una nuova generazione di inviati speciali e reporter. Vanno alla guerra senza idee e senza criteri deontologici. E quei pochi criteri che si portano dietro, ben ficcati nel cervello, sono la caccia allo scoop a tutti i costi. Instant journalism come dice Ryszard Kapuściński – che “ha trasformato il giornalismo in business e ha profondamente modificato la nozione di responsabilità”. Queste righe sono dunque dedicate ai direttori dei giornali che, appena insediatisi, scrivono sempre un nobile editoriale per spiegare ai lettori- spettatori di essere arrivati lì per mettersi al loro servizio. Ma poi lavorano al servizio innanzitutto di se stessi e, in seconda battuta, dei loro editori di riferimento, nei confronti dei quali devono essere leali. È per questo – e qui mi riferisco ai media italiani in modo particolare, perché sono i più corrivi – che poi riempiono i giornali e i telegiornali di soft news, di informazione leggera, di infotainment, cioè informazione più entertainment, di pagine e pagine di dettagli del Palazzo, talmente insignificanti che solo il Palazzo li legge, insieme ai direttori di giornale. Perché fanno parte dello stesso mondo, si scambiano favori, si fanno sgambetti per contrattare altri favori, tirano le volate o bloccano le fughe. Al grande pubblico dei lettori queste cose non interessano. Infatti i lettori sorvolano. Vanno a cercare altro, che spesso non trovano. Non sappiamo cosa cercano. Sicuramente non è vero che il pubblico sia stupido. È vero esattamente il contrario: “I media disprezzano a tal punto la gente da ritenerla più stupida di quanto siano i mass media“.»
«… Quando ci accorgeremo che dai nostri media è sparito il mondo? Che esiste un’impressionante sproporzione tra le sciocchezze con cui li si riempie (e che determinano, queste sì, il livello intellettuale e morale del grande pubblico) e le cose serie, quelle che contano, quelle che definiscono il tenore culturale di un popolo nel suo complesso? Quando verrà il momento in cui i direttori di telegiornali e giornali (pubblici e privati, poiché anche l’etere privato è un bene pubblico tant’è vero che è dato in concessione) torneranno a darci notizie decenti per capire cosa succede?»
«…una riduzione del tasso d’informazione equivale direttamente a una riduzione del tasso di democrazia di una società.»
«…Ma il rumore di fondo, la musica di fondo non sono stati minimamente intaccati. La musica di fondo è data dalle prime pagine televisive e giornalistiche, dal tono generale delle notizie e dei titoli, dagli editoriali, dalla massa dell’informazione sul campo. Non c’è stato un solo attimo in cui la musica di fondo sia cessata. E chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non può negare che sia essa a determinare l’orientamento della gran parte del pubblico. E, se non fosse esattamente così, non si spiegherebbe l’accanimento dei potenti per il controllo dei mezzi di informazione e comunicazione. Sono loro, con la propria implacabile azione di controllo, a dimostrare che l’assunto è esatto, oltre che la “sensata esperienza” sul campo. La musica di fondo, assordante, pervasiva, nega il pluralismo, lo annulla alla radice. Questo è il trucco. Si apre così una questione centrale che riguarda la responsabilità professionale dei giornalisti. Il loro esercizio critico è essenziale affinché milioni di telespettatori e lettori possano formare il proprio giudizio. Certo, manca una buona informazione, ma manca soprattutto la volontà di sottoporre i poteri al vaglio di una critica serrata, senza riguardi. Che è poi l’abc giornalismo.»
«… Ma ricordo le descrizioni della temibile potenza militare dei taleban, mutuate dai bollettini del Dipartimento di stato, senza alcun vaglio critico, assunte come oro colato. Poi, in seguito, è filtrata la notizia che il Pentagono aveva istituito l’Osi (Office for Strategic Influence), ovvero “I’Ufficio per l’informazione e la disinformazione”. C’è stato chi si è stupito e si è indignato per questo. Pensavano che soltanto il Kgb si fosse occupato di disinformazione e scoprivano, per la prima volta, beata innocenza, che la disinformazione era il pane quotidiano dell’Osi. Ci hanno raccontato un sacco di fandonie che noi giornalisti abbiamo semplicemente riversato sul pubblico.»
«… Tutti questi mutamenti hanno steso una rete estrema mente complessa di influenze sulla popolazione mondiale. Tutto ciò non esisteva vent’anni fa. Ci troviamo nel pieno di colossali processi di fusione che pongono i sistemi di comunicazione – produzione dei software e degli hardware, di entertainment, di advertising, d’informazione in senso stretto, di produzione culturale ecc. nelle mani di un pugno di operatori mondiali che determinano oltre l’80% dei flussi informativi attualmente circolanti sul pianeta. – Credo che l’intera questione vada esaminata – nessuno l’ha ancora fatto – sotto un’ottica nuova. Ma si avverte subito che quest’inedita situazione influenzerà radicalmente il nostro futuro, quello della democrazia in primo luogo, quello della pace e della guerra, e della nostra stessa sopravvivenza.»
«…Lucia Annunziata ha fatto spallucce, in un dibattito al quale partecipammo assieme, replicando che “la propaganda c’è sempre stata, è elemento tipico di ogni guerra”. È esatto. Ma chi ha stabilito che quella cui noi siamo sottoposti è migliore di quella degli altri?»
«…È vero che la propaganda di guerra funziona sempre. Ma giornalista deve chiedersi se sia giusto farla – e diventare complice – oppure se la si debba respingere. Non siamo di fronte a un’oziosa e astratta disputa. Qui si tratta di decidere non da che parte stare, se con la “patria” o con il nemico, ma se trasformare o meno la propria professione in uno strumento di manipolazione della gente. E molto importante, per esempio, sapere se si doveva nascondere o, al contrario, rivelare che il bombardamento americano del rifugio di Al-Amariya, nei dintorni di Baghdad, nel 1991, provocò la morte di centinaia di civili, in maggioranza donne e bambini. Non c’è stato soltanto il silenzio dei media occidentali. Tutti hanno accettato immediatamente la tesi del Pentagono: quello non era un rifugio ma un centro di comando dell’esercito iracheno, opportunamente riempito di civili, usati come scudi umani per far ricadere la vergogna dell’eccidio su Washington. Successive indagini indipendenti hanno invece dimostrato che là non c’è mai stato e non poteva esserci nessun centro di comando. È stato un errore di mira. Ma quanti lettori e spettatori, nel mondo, in America, in Europa sanno di quell’eccidio? E come qualificare quel giornalismo che, dimenticando ogni volta le leggi della propaganda di guerra, si scopre credulone e ingenuo al punto da prendere per oro colato ciò che la centrale di guerra elargisce come una verità rivelata? E accaduto perfino a “La Repubblica”, in un editoriale addirittura non firmato per accrescerne l’autorevolezza, per sottolineare che quella era la linea editoriale. Si commentava il videotape della “confessione” di Osama bin Laden. “A differenza degli orrori del passato, abbiamo la possibilità di vedere il male mentre progetta se stesso e si compie. È giusto che i cittadini conoscano questo documento e ne prendano coscienza.” Ma il video, in realtà, i “cittadini” non l’hanno visto, così come non hanno visto nemmeno i successivi. C’è stata la decisione politica di non diffondere quei testi, quelle immagini: scelte censorie, motivate dal pericolo che contenessero messaggi in codice. Prendiamo per buona la motivazione. Ma come giungere a conclusioni così perentorie, senza il beneficio d’inventario, senza tenere conto della propaganda? In realtà i poveri “cittadini” hanno visto solo dei brani, senza conoscere il contesto, senza sapere troppe cose. E invece di spiegare il meccanismo (almeno la possibilità della manipolazione), si dice pomposamente, in prima pagina, che si tratta della verità finale.»
«…Questa è esattamente propaganda di guerra. E, del resto, non se ne fa mistero. Tutti hanno usato più o meno le stesse espressioni spiegando che la guerra più difficile è la “conquista della pubblica opinione”. Guai dunque a tutti coloro che osano chiedere spiegazioni, che cercano di operare distinzioni razionali, che denunciano la propaganda o anche soltanto gli eccessi inutili. Sono quinte colonne, amici dei nemici, nemici della civiltà, nemici dell’Occidente. Le nuove guerre di cui sarà fatta la Superguerra dell’Impero saranno combattute con questa logica, non meno violenta e distruttrice di quella dei bombardieri. Il sistema mediatico mondiale è diventato uno stormo di B-52. È carta, sono immagini e bit ma fanno più danni dei bombardieri veri. Purtroppo – lo si deve riconoscere, come preliminare condizione per poter eventualmente organizzare un’opera di risanamento – quasi nessuno (o pochi) tra chi lavora in posizioni dirigenti nei giornali, nelle televisioni, nelle radio, nelle riviste, fa il suo mestiere pensando di esercitare un’attività culturale. Se così fosse, rientrerebbero categorie etiche come il rispetto della verità, la responsabilità di fronte al pubblico e così via. Si lavora invece per produrre profitto (non importa se per sé o per chi paga) e controllo sociale (leggi manipolazione). In questo contesto le porcherie che producono, in guerra o in pace, sono in gran parte effetti deliberatamente programmati e, in parte minore, sono scarti di lavorazione. Ma non ci hanno pensato.»
IRAN, IRAQ, COREA DEL NORD
«… Anche le “nuove priorità delle relazioni internazionali” sono da considerare. Nel discorso di Bush la parola “sicurezza è stata usata diciannove volte, mentre la parola Europa non è stata mai pronunciata. Noi non c’entriamo, non saremo protagonisti ma neppure comprimari. Semplicemente ci verranno impartiti ordini, quando e se il ponte di comando lo riterra opportuno. In compenso è stata coniata una nuova formulazione, che diventerà presto il mantra dei nostri giorni, il logo dell’epoca: l’Asse del Male. Nella lunga serie dei prossimi obiettivi, tre sono stati indicati come prioritari: Iran, Irak, Corea del Nord. Gli Stati Uniti andranno a colpire in quella direzione. Nemmeno la Palestina è stata mai nominata: per la semplice ragione che il compito di liquidare il problema è stato delegato a Israele.»
NUOVO ORDINE MONDIALE
«… Si capisce che l’Asse del Male è un colossale diversivo. Certo, dev’essere distrutto per ragioni di sicurezza e di autodifesa dell’Impero nel suo stesso territorio: l’11 settembre ha dimostrato che non c’è un’invulnerabilità assicurata, imboccata la strada della Superguerra. Il vero punto all’ordine del giorno è un nuovo ordine mondiale la cui agenda sia interamente, totalmente definita dall’Impero. I veri obiettivi di questa guerra sono più vasti e lontani. Sono tre: la Cina, l’Europa e la Russia. Ci si prepara a creare le condizioni perché tutti e tre questi potenziali antagonisti reali siano sottomessi o ridimensionati o distanziati al punto da rendere impossibile una loro eventuale rincorsa.»
EUROPA
«…L’Europa è l’altro partner ancora potenzialmente pericoloso. Molto è già stato fatto per tenerla a bada e subordinata agli interessi degli Stati Uniti. L’Europa è stata decisiva ne corso della Guerra fredda. Ora non lo è più. Nell’intera fase successiva alla Seconda guerra mondiale aveva senso – un senso preciso e grande – parlare di Occidente. Durante l’ultimo decennio il termine stesso ha perduto gran parte del suo significato. Il canto del cigno di quell’Occidente è stata la guerra jugoslava, celebrata sotto la sigla unita della Nato cui sono stati assegnati nuovi compiti da svolgere in una fase intermedia. L’11 settembre questa fase intermedia è stata bruciata e al suo posto, è subentrata la nascita dell’Impero e la convinzione degli Stati Uniti di poter fare da soli. Anche in questo caso, tuttavia, si vedranno oscillazioni non lineari che potrebbero dare l’impressione di una lotta tra diverse linee nei circoli dirigenti statunitensi, e che comunque dovranno tenere conto delle vischiosità storiche e delle consuetudini: non sarà facile che tutta l’Europa si adatti al nuovo ruolo di completa subalternità che le viene assegnato.
L’Europa rimane tuttavia pericolosa per vari motivi, tutti strategicamente rilevanti. In primo luogo, quello economico. Nonostante l’offensiva neoliberista dell’ultimo decennio condotta dalla Federal Reserve, dai circoli finanziari statunitensi spalleggiati dalle amministrazioni di Washington, coordinata dal “consenso di Washington” attraverso lo strumento del Fondo monetario internazionale, l’Europa è rimasta in parte se stessa, non si è adattata totalmente alle ricette americane. Come ha scritto efficacemente William Pfaff, continua a esistere “un’Europa economica, un’Europa commerciale, un’Europa dell’euro, un’Europa con un proprio mercato comune. un’Europa che coopera industrialmente, tecnologicamente, un’Europa protezionista che sussidia, un’Europa che mantiene protezioni sociali; un’Europa che mantiene la propria fisionomia culturale, un’Europa che conserva un sistema sanitario nazionale, un’Europa antitrust, un’Europa antidumping e, in un certo senso, un’Europa antiglobalizzazione e antiamericana. E tutte queste Europe non se la cavano poi così male”. Dall’altra parte dell’Oceano queste cose sono ben visibili e molto poco gradevoli.»
SUPERGUERRA
«…Dunque questa Superguerra non è, in realtà, né uno scontro di civiltà né la guerra tra Oriente e Occidente, né la lotta senza tregua tra cristianesimo e Islam. Non è neanche l’eterna collisione tra il Bene e il Male. Non è nulla di ciò che è stato propinato alle grandi masse per motivarla. L’imperatore, parlando nella “Cittadella” di Charleston, agli inizi di dicembre del primo anno della Superguerra, ha proclamato che il mondo è ormai “diviso da una linea di demarcazione morale e ideologica.” Da una parte ci saremmo noi, ma soprattutto l’America, faro della civiltà mondiale. Dall’altra, “bande di assassini, sostenute da regimi fuorilegge”. E la logica del “con noi o contro di noi” che non lascia scampo ai distinguo, perché chi mai potrebbe stare con gli assassini, contro la civiltà? Ma non è così che stanno le cose. Perfino un falco come Hoagland se n’è accorto, descrivendo, con la sua abituale brutalità, quella “linea che connette le abitudini allo spreco e quei crapuloni gasificatori che intasano le autostrade americane con i quindici giovani arabo-sauditi che contribuirono ad ammazzare circa 4000 americani”. Una linea “al tempo stesso tenue e chiara”, perché “potevano certo esserci state altre motivazioni più cogenti, nelle menti dei terroristi, mentre si proponevano di infliggere il massimo di sofferenza a un paese che aveva aperto loro le porte; nella vita reale non ci sono mai cause ed effetti così lineari e legati le une agli altri in modo così lineare e diretto. Ma è abbondantemente chiaro che la necessità d’importare energia ha costretto gli Stati Uniti a compromettersi profondamente con regimi decadenti“.
Qui si trova un’assoluta coincidenza cosa che accade quando la ragione si sveglia dal suo letargo – tra un conservatore repubblicano che in Italia definiremmo di estrema destra e un libero pensatore che in Europa è considerato di sinistra: “Non c’è nessuna giustificazione possibile a crimini come quello dell’11 settembre, ma possiamo considerare gli Stati Uniti vittima innocente solo se prendiamo la strada più comoda e ignoriamo completamente le loro azioni pregresse e quelle dei loro alleati”.
Siamo invece agli inizi dello scontro, davvero inedito – il più frontale probabilmente che l’umanità abbia mai visto – tra la nuova élite della super-società globale nascente e il resto del mondo.»